Pubblicato il Novembre 24, 2022Aggiornato il Novembre 28, 2024
“Promuovere la conoscenza, l’amore e la protezione dell’oceano”: questa è la promessa e il mantra del museo oceanografico di Monaco. Fondato nel 1889 dal Principe Alberto I di Monaco e inaugurato nel 1910, questo monumento in stile Secondo Impero francese è costruito su Le Rocher, a fianco della falesia, e sembra vegliare sul Mediterraneo che si apre di fronte a esso. 85 m di altezza, 6.000 m2, un centinaio di vasche, circa 6.000 esemplari, 600.000 visitatori annuali: incontro con Robert Calcagno, Direttore generale dell’Istituto oceanografico, Fondazione Alberto I Principe di Monaco, per comprendere cosa succede dietro le quinte di questo luogo unico.
Il Museo oceanografico di Monaco è un’istituzione che non poteva non esistere nel Principato?
Robert Calcagno: Il principe Alberto I aveva una grande passione per il mare. Esperto navigatore e principe visionario, voleva rendere accessibili le scienze marine per sensibilizzare il grande pubblico. L’esposizione universale del 1889 fu una tappa fondamentale. A quest’epoca, aveva già svolto diverse spedizioni nel Mediterraneo e nell’Atlantico settentrionale (NDR: ne effettuerà in totale 28). Questo evento gli offrì l’opportunità di esporre tutti i tesori che aveva portato con sé dalle sue spedizioni. Il successo fu immenso, le visite entusiastiche. L’idea di creare un museo nacque probabilmente subito dopo. Sarà inaugurato a maggio del 1910. Un secolo dopo, i legami che uniscono Monaco al mare sono ormai un fatto assodato. Un’eredità tramandata dal Principe Ranieri III e da S.A.S. il Principe Alberto II.
Quali sono i punti di forza di questo Museo?
R.C.: Questo museo è eccezionale in più di un senso. Oltre alle sue magnifiche collezioni, possiede uno dei più antichi acquari al mondo, con vasche che riproducono ecosistemi molto complessi e ospitano non meno di 6.000 esemplari di pesci. Ospita inoltre un centro di cura per le specie marine del Mediterraneo che offre supporto a diversi progetti dedicati alla biodiversità. La sua architettura in stile Napoleone III è anch’essa notevole, sia per l’altezza della costruzione, che misura 85 metri e svetta a fianco della falesia, che per gli elementi decorativi interni ed esterni che evocano il mondo marino. È possibile citare ad esempio l’incredibile lampadario a forma di medusa, eseguito nel 1908 dalla Maison Baguès. È quindi un eccellente strumento di supporto per l’azione intrapresa dal Principe Sovrano che, sulla scia del suo trisavolo, continua a impegnarsi per l’indispensabile protezione del pianeta blu.
Quali sono gli obiettivi del Museo?
R.C.: Gli obiettivi sono appunto quelli di promuovere la conoscenza, l’amore e la protezione degli oceani. Un obiettivo che realizziamo con i 650.000 visitatori che ci visitano ogni anno, ma non solo! In quanto fondazione, operiamo per confederare gli attori scientifici, politici, economici, le associazioni e le aziende. Come testimonia ad esempio il nostro evento annuale, la Monaco Blue Initiative, co-gestita con la Fondazione Principe Alberto II, che permette scambi di alto livello sui temi dell’economia blu e della salute dell’oceano, con rappresentanti di paesi di ogni continente. O anche la Monaco Ocean Science Federation, attraverso la quale mobilitiamo le grandi organizzazioni europee delle scienze marine, per rafforzare la cultura oceanografica in tutta Europa.
Dietro il Museo, si nasconde quindi una fondazione. Quali sono i legami fra queste diverse entità?
R.C.: Bisogna tornare per un momento al Principe Alberto I, il cui desiderio di convincere il maggior numero di persone del ruolo fondamentale degli oceani si è tradotto nella creazione nel 1906 dell'Istituto oceanografico, Fondazione Alberto I Principe di Monaco – una fondazione riconosciuta come di pubblica utilità. Si basa su due strutture, ovvero il Museo oceanografico, inaugurato nel 1910, e la Maison de l’Océan a Parigi. Il Museo presenta le collezioni scientifiche, patrimoniali e artistiche e organizza e accoglie mostre, giocando così un ruolo fondamentale di mediatore nei confronti del pubblico. La Maison de l’Océan è un vero e proprio “hub ambientale” nel cuore del Quartiere Latino, che ospita i principali attori della protezione degli oceani e accoglie eventi professionali o con un pubblico di alto livello sulle principali sfide attuali.
Riunire in un medesimo luogo arte e scienza è stata un’idea del Principe Alberto I. Quest’idea è ancora al centro del progetto?
R.C.: Certo. Come abbiamo visto in precedenza, Alberto I ha reso il Museo un punto di riferimento permanente per l’arte e la scienza, dato che l’arte è un modo di sensibilizzare sulla grandezza e la fragilità degli oceani tanto quanto il sapere scientifico. Ecco perché da molti anni coltiviamo collaborazioni artistiche a livello internazionale, come con Damien Hirst (2010), Huang Yong Ping (2010), Mark Dion (2011), Marc Quinn (2012) o Philippe Pasqua (2017) e la sua monumentale mostra Borderline.
Qualche parola sulla mostra Missione polare?
R.C.: Aperta a giugno, questa mostra, la cui madrina è l’attrice Mélanie Laurent, durerà fino all’estate 2024 e ha già accolto più di 380.000 visitatori (NDR: fino al 15 novembre 2022), dando quindi prova della curiosità del pubblico per queste regioni. Offre un’immersione in cinque tappe nel cuore dell’Artico e dell’Antartico. È dunque possibile incontrare alcuni grandi esploratori di queste regioni estreme; le specie emblematiche, fra cui gli orsi bianchi dell’Artico e i pinguini imperatori dell’Antartico; gli esseri umani che abitano queste terre inospitali; i ricercatori che vi lavorano... Infine, la sala “IMMERSIONE” è senza dubbio il punto culminante di questo percorso con 650 m² di proiezioni e di tecnologie all’avanguardia. I visitatori possono quindi assistere al pasto gargantuesco delle balene, meravigliarsi di fronte alle aurore polari o trovarsi in mezzo alle sterne dai versi striduli e alle orche maestose.
Quindi, questa mostra è pienamente coerente con la storia di Monaco e del suo rapporto con il mare, giusto?
R.C.: Per molto tempo abbiamo creduto che i poli sarebbero stati risparmiati dai cambiamenti climatici. Oggi sappiamo che questo non è vero. La calotta glaciale artica non smette di ridursi e il contenente antartico mostra sempre più segnali di fragilità. All’inizio del XIX secolo, Alberto I si è recato per quattro volte nell’arcipelago di Svalbard, dove ha scattato delle foto al ghiacciaio Lilliehöök, il più grande dello Spitzberg. Quando S.A.S. il Principe Alberto II vi è tornato nel 2005, e poi nel 2022, ha potuto constatare il ritiro di diversi chilometri di questo gigante.
Questa esperienza è uno dei propulsori dell’impegno di Monaco per i poli. Questi deserti ghiacciati non sono solo paesaggi mozzafiato, bensì anche anelli indispensabili al buon funzionamento e all’equilibrio del pianeta e del clima. Nel 2009, è nata la Fondazione Principe Alberto II di Monaco, dedicata alla lotta contro i cambiamenti climatici, con una speciale attenzione per le regioni polari. Il Principe Sovrano, grazie alla Sua azione diplomatica, nel 2016 ha promosso la creazione dell’Area Marina Protetta del mare di Ross nell’Antartico e ha contribuito a far sì che il divieto di utilizzo di olio combustibile pesante nelle imbarcazioni in Antartico diventi effettivo a partire dal 2024 anche nell’Artico.
Il museo è anche un acquario: cosa succede dietro le quinte da questo punto di vista?
R.C.: L’aquario presenta 90 vasche raggruppate in due spazi, uno dedicato al Mediterraneo, l’altro ai mari tropicali. Dal lato del Mediterraneo, le vasche accolgono cento delle 650 specie che vivono in questo mare, fra cui la celebre cernia. Un mondo incredibile che evolve fra le praterie di posidonia e i fondali corallini. Altrove, l’espansione colorata delle vasche dei mari tropicali offre uno spettacolo senza fine di forme e colori straordinari. Un mondo dove la simbiosi e la complementarità sono d’obbligo. Tuttavia, l’aquario è anche, come abbiamo già menzionato, il Centro Monegasco di Cura delle Specie Marine (CMSEM) che guida progetti collaborativi dedicati all’osservazione partecipativa e allo studio delle tartarughe marine, dei cavallucci marini o delle nacchere. Dietro le quinte, i nostri team praticano una tecnica chiamata “talea dei coralli”, che ne permette la riproduzione, limitando così il prelievo dall’ambiente marino. Con molto lavoro, siamo riusciti inoltre a far riprodurre alcune specie di pesci, come l’apogon delle isole Banggai o il pesce pagliaccio spinoso, sempre con l’obiettivo di ridurre il nostro impatto.
Tramite quali strumenti e con quali modalità il Museo oceanografico si rivolge alle giovani generazioni?
R.C.: Anche se il Museo si rivolge a tutte le fasce d’età, far emergere nei giovani una coscienza ecologista è una sfida fondamentale. Oltre agli stretti legami con il mondo dell’insegnamento, il carattere pedagogico del Museo è ormai un fatto assodato. Numerosi workshop permettono ai giovani di apprendere in modo interattivo. Ad esempio, nella sala “Monaco e l’oceano”, grazie a dispositivi interattivi sensibilizziamo sul tema delle grandi sfide, come l’inquinamento della plastica, i cambiamenti climatici, la pesca eccessiva. Nell’ambito dell’esposizione “Missione polare”, abbiamo pensato a un opuscolo per accompagnare i bambini durante la loro visita, attraverso giochi e missioni da completare. Infine, siamo molto fieri della nuova edizione del progetto “Oceano per tutti”, che si svolge in questo stesso momento! Questo grande concorso si rivolge agli studenti monegaschi, francesi e internazionali. I nostri team li guidano nei workshop online e mettono loro a disposizione risorse pedagogiche. Ogni classe dovrà proporre un progetto concreto per la protezione degli oceani: non vediamo l’ora di scoprirli!
Ci può parlare del progetto Esplorazioni di Monaco e in particolare della missione Oceano Indiano?
R.C.: Questa missione, che si inserisce nell’impegno preso da S.A.S. il Principe Alberto II per la salvaguardia degli oceani, è la più grande mai intrapresa dal Principato di Monaco. Come sempre, i progetti delle Esplorazioni di Monaco sono costruiti su un trittico che mette al primo posto la scienza. Per questa missione, un centinaio di scienziati si sono quindi imbarcati sulla S.A. Agulhas II. Stanno studiando “da ogni angolazione”, per così dire, l’Oceano Indiano, utilizzando le tecnologie più all’avanguardia. Quanto al secondo elemento, la politica, la diplomazia e l’influenza, queste non sono certo state trascurate, come dimostra la visita ufficiale del Principe Sovrano alle Seychelles e l’incontro con il presidente. Infine, per quanto riguarda il terzo elemento, cioè la mediazione, o “outreach” come dicono gli anglosassoni, questo prende diverse forme, come durante lo scalo della nave a Mahé, che ha permesso non solo agli ufficiali delle Seychelles di visitare la S.A. Agulhas II e i laboratori a bordo, ma anche di ricevere studenti provenienti da tutte le scuole dell’arcipelago.
Può dirci di più su uno dei progetti condotti durante questa missione?
R.C.: Vorrei parlare di Saya de Malha. Si tratta di un banco di bassi fondali poco conosciuto, poco esplorato, poco mappato, ma forse un domani, al termine di questa spedizione di esplorazione, potremo sapere se si tratta di un’opportunità per le Seychelles e le Mauritius in materia di protezione della biodiversità. Infatti, Saya de Malha è una zona marittima per la quale le repubbliche di Seychelles e di Mauritius hanno ottenuto la gestione comune dei fondi marini per l’estensione della loro piattaforma continentale. Questa piattaforma costituisce una vasta zona di bassa profondità, fra -7 e -200 metri, che è occupata in gran parte da un’ampia prateria sottomarina. Questa “isola invisibile”, come mi piace descriverla, è sia una riserva di cibo per la biodiversità, che un incredibile sistema di cattura di anidride carbonica (carbonio blu). Questa zona è oggi poco conosciuta e una migliore comprensione del suo ecosistema permetterà sicuramente una migliore gestione e una protezione più efficace. L’idea alla base di questa spedizione consiste nel convincere i diversi paesi a implementare strumenti di protezione che potranno beneficiare non solo Saya de Malha, ma anche tutte le zone dell’oceano che presentano caratteristiche simili. Possa l’esempio di Aldabra in materia di protezione della biodiversità ripetersi sul banco della Saya de Malha, una zona marittima vasta, in termini di superficie, come la Svizzera!
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