Pubblicato il Novembre 30, 2018Aggiornato il Novembre 28, 2024
Giunto nel Principato da ormai quasi vent’anni, direttore artistico del gruppo Monte-Carlo Société des Bains de Mer dal 2001, ci ha lasciati 25 maggio 2021.
Jean-René Palacio è colui che ha introdotto il jazz all’Opéra Monte-Carlo creando, nel 2006, il Monte-Carlo Jazz Festival. La 13ª edizione s'è appena conclusa,e questo melomane cresciuto sulle note della rolling stone del rock prima di familiarizzarsi con la blue note continua a difendere il « suo » jazz. Un jazz libero, accogliente e sempre in movimento. Incontriamolo…
Evolvere nell’ambito musicale è stato per lei qualcosa di ovvio?
Jean-René Palacio: Se non si è trattato di un’ovvietà, ha rappresentato certamente un obiettivo. Essendomi formato all’Istituto di Studi Politici di Lione, il mio avvenire era eminentemente orientato verso l’amministrazione della Repubblica ! (ride) Ma come diceva il grande Charles Aznavour nella sua celebre canzone «La Bohème», « Je vous parle d’un temps » (« vi parlo di un tempo ») in cui non c’era un piano di studi per entrare in un’università artistica. Tutto era più spontaneo ed ero appassionato.
Quali sono state le sue prime emozioni musicali ?
J-R.P: Avevo 16 anni quando sono scappato di casa per andare a vedere i Chicago! Ho avuto la fortuna di vivere in un periodo musicale incredibile dove s’incrociavano Santana, gli Stones, i Pink Floyd, i Led Zeppelin... È stato in quello stesso periodo che ho scoperto la musica afro-americana, in particolare il jazz. Quello di Miles Davis, di Chet Baker...
Com’è stato il suo arrivo a Monaco ?
J-R.P: Venire a lavorare nel Principato ha rappresentato una sfida e un sogno. Un’opportunità che non avrei mai immaginato. Peraltro, per me avvicinarmi al Mediterraneo era qualcosa di importante. Essendo un pied-noir d’origine spagnola, vi ho ritrovato le mie radici.
Perché ha voluto portare il jazz nel Principato ?
J-R.P: Ma c’era già, molto prima che arrivassi io ! Frank Sinatra c’era stato fin dal 1958, accompagnato dall’orchestra di Quincy Jones. Lo stesso vale per Stan Getz, o ancora per André Ceccarelli e per tutto il fior fiore del jazz francese, che ruotava all’epoca tutt’intorno a Aimé Barelli, direttore d’orchestra dello Sporting Monte-Carlo. Ho avuto semplicemente voglia di continuare a scrivere questa bella storia del jazz nel Principato, ma anche di offrire un respiro musicale autunnale, che completasse la programmazione estiva già molto ricca. È così che è nato il Monte-Carlo Jazz Festival.
Che ricordo ha delle prime edizioni del festival, dell’accoglienza del pubblico ?
J-R.P: Mi ricordo molto bene della mia prima conferenza stampa. Mi veniva chiesto: « Del jazz nella Salle Garnier ? Ma è sicuro ? In questa culla della cultura ? » Non abbiamo fatto altro che riprendere l’idea di Norman Granz, quest’americano che, creando il Jazz at the Philharmonic nel 1944, era stato il primo a introdurre il jazz nelle sale più prestigiose. Malgrado i dubbi, non ci siamo lasciati scoraggiare… E abbiamo fatto bene, visto il successo incontrato in seguito.
Quali sono i suoi più bei ricordi del Monte-Carlo Jazz Festival ?
J-R.P: Tutti i concerti tenuti nella Salle Garnier sono stati eccezionali, ma in particolare abbiamo avuto la fortuna di ricevere artisti del calibro di Sonny Rollins, Herbie Hancock, Wayne Shorter o ancora Roy Hargrove, sfortunatamente da poco scomparso. Era venuto una prima volta allo Sporting Monte-Carlo con Shirley Horn, prima di tornare a suonare alla Garnier nel 2010 con l’Orchestra Filarmonica, in occasione di una creazione con Marcus Miller. Penso anche a Prince, nel 2006, eccezionale !
Su che cosa si basa la forza e l’identità del Monte-Carlo Jazz Festival ?
J-R.P: È un luogo aperto alla creatività, alle scoperte e agli incontri. Come per esempio quest’anno quello di Marcus Miller e Selah Sue. Significa poter ascoltare un Wayne Shorter nel 2016 e una Youn Sun Nah nel 2018, assistere così al trasmettersi della passione del jazz da una generazione all’altra. Vuol dire assistere agli spettacoli di grandi star come Bobby McFerrin e John McLaughlin, che sono venuti anch’essi a onorare l’edizione 2018. E significa anche prendere un po’ in giro i puristi del jazz proponendo artisti « fuori programma » come, quest’anno, Benjamin Biolay, Boy George o il pianista classico Denis Matsuev. E c’è stato anche questo concerto omaggio a New Orleans, che ha riunito Sanseverino e Hugh Coltman. Il Monte-Carlo Jazz Festival vuol essere un grande melting-pot, a immagine e somiglianza di ciò che è il jazz, accogliente, aperto a tutti. Oggi, questo festival è diventato un «momento forte » del calendario del Principato, e ne sono molto fiero.
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